Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente

domenica 29 novembre 2020

Una sinfonia

 




Nelle scorse settimane, quando si è cominciato a parlare dell’introduzione della nuova edizione del messale romano in italiano, a partire da oggi 29 novembre 2020, sono rimasto perplesso. Alcuni cambiamenti che si vedono in esso infatti non sono dei semplici ritocchi da traduttore, ma nuove interpretazioni del testo latino. Prese singolarmente alcune variazioni mi apparivano come vere e proprie forzature.
Ma com'è possibile, mi dicevo, che un lavoro durato 18 anni, che ha coinvolto tre pontefici, tutti i vescovi italiani, liturgisti, biblisti, latinisti, italianisti, storici, sia sacerdoti che laici, abbia prodotto un testo che sembra oggettivamente forzato?

Ho cominciato a studiare; ho recuperato prima il testo latino del messale, poi, dei passaggi più controversi, quelli che la liturgia prende dalle scritture, ho cercato il corrispondente in greco; ho studiato pareri di vescovi e teologi a favore e approfondito le tesi di chi è radicalmente contro tale nuova traduzione e poi, stamattina, sono andato a messa… è stata forse l’esperienza liturgica più bella della mia vita, tanto che sono arrivato a ricevere l'eucaristia palesemente commosso. 

Il soffermarmi sui singoli aspetti della liturgia non mi aveva permesso di guardare al suo complesso; come se avessi voluto capire una sinfonia ascoltando uno strumento per volta e invece la liturgia a cui ho partecipato è stata sublime, come mai mi sarei aspettato. Tutto armonizzato da una poetica evidente, bellissima.

Ora capisco e ringrazio la Chiesa per questo dono che ha voluto fare a noi tutti. 

Sia chiaro che alcune criticità delle singole scelte di traduzione le vedo ancora, ma nel contesto della liturgia di questa mattina queste non c’erano, tutto si è presentato perfettamente armonizzato nella totalità del rito. Provo a fare qualche esempio.

Nel Gloria iniziale la formula “gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” è cambiata in “gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini amati dal Signore”. Presa così, oggettivamente, è un cambio di impostazione rilevante. Nella stesura a cui eravamo abituati infatti la gloria nei cieli corrisponde alla pace in terra per gli uomini di buona volontà, che quindi sono soggetti attivi nel dover corrispondere con la propria volontà al dono del cielo; nella nuova stesura invece gli uomini diventano soggetti passivi dell’amore di Dio che non può che essere per tutti, indipendentemente dalla volontà del singolo. Sembra che non ci sia più alcuna necessità per l’uomo di corrispondere con la propria volontà e, quindi, con le proprie opere, al dono del cielo… quello che non si vede in questa analisi ravvicinata è che il Gloria è un inno e una preghiera culmine di un atto penitenziale, in cui l’assemblea implora Cristo, figlio del Padre, di avere pietà... e di cosa dovrebbe avere pietà Dio se non delle nostre opere sbagliate, della nostra mancata corresponsione a quell’amore che l’inno  introduce? Ma questa è solo una delle cose che mi hanno colpito. Le parole che il celebrante pronuncia in ogni momento liturgico sono state arricchite di riferimenti chiari; il momento sacrificale è inequivocabile, così come la volontà della Chiesa di essere il corpo di Cristo che si offre al Padre. Il tutto divenuto però una poesia; ogni parte della liturgia è fatta per essere cantata e anche in assenza di melodia la metrica è evidente. 

Anche la polemica sulla nuova versione del Padre nostro, nel contesto sinfonico della liturgia, scompare, per rilevare invece una naturalezza disarmante. 

Dopo tutto, quella stessa polemica, nasce da presupposti errati, in cui ci si impunta nel sostenere che in verbo “indurre” sia l’unico che può esprimere quello che Gesù intendeva. Si dimentica, nel contempo, che Gesù però ha dato il Padre nostro in aramaico, che poi è stato tradotto in greco, poi in latino ed ora in un italiano le cui parole rischiano di avere un significato completamente diverso da quanto invece avevano originariamente. Quello che dobbiamo ricercare è se il senso delle espressioni usate in italiano sia lo stesso non letteralmente, ma nel significato dei concetti espressi. Questo solo la tradizione della Chiesa lo può testimoniare e tutta la tradizione, dai padri fino ai dottori della Chiesa, così come in tutti i documenti magisteriali, dice inequivocabilmente che Dio non induce nessuno al male e che l’espressione “non ci indurre in tentazione” si riferisce alla prova a cui Dio sottopone i suoi figli per purificarli. Infatti il termine tentazione, che noi oggi associamo all’azione del demonio in via esclusiva, in latino significa esame, prova. La nuova traduzione che recita “non ci abbandonare alla tentazione”, quindi, significa “non lasciarci soli nella prova” che è esattamente quello che la Chiesa ha sempre sostenuto che debba significare.

In conclusione e alla luce della mia esperienza, do un consiglio a voi tutti: approfondite il significato della liturgia, analizzatene anche i singoli aspetti, ma, principalmente, partecipate alla sua celebrazione, siate strumenti vivi della sinfonia di Cristo che in essa si manifesta.



Gennaro Cangiano (M.I.)



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