Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente

mercoledì 19 aprile 2017

Alle origini della falsa misericordia


di Gennaro Cangiano


Alle origini della falsa misericordia c'è un mutamento della definizione trinitaria sostanzialmente inedito nel pensiero cattolico. Leggiamo insieme queste parole di Papa Francesco pronunciate all'angelus del 6 aprile 2016, in cui, parlando della parabola del figliol prodigo, afferma:
… Ma il distacco da quel figlio è solo fisico; il padre lo porta sempre nel cuore; attende fiducioso il suo ritorno; scruta la strada nella speranza di vederlo. E un giorno lo vede comparire in lontananza (cfr v. 20). Ma questo significa che questo padre, ogni giorno, saliva sul terrazzo a guardare se il figlio tornava! Allora si commuove nel vederlo, gli corre incontro, lo abbraccia, lo bacia. Quanta tenerezza! E questo figlio le aveva fatte grosse! Ma il padre lo accoglie così. …” 
In realtà, leggendo tutta la pagina evangelica, si evince che il Padre perdona e accoglie il figlio perché vede in lui il sentimento di profondo e vero pentimento, che rende possibile e attuale la misericordia. Senza tale sentimento, il Padre non avrebbe perdonato il figlio, ma lo avrebbe scacciato.
Questa è la Verità e questo è ciò che rende possibile l’attuazione della vera e infinita misericordia del Padre verso i figli che hanno peccato.
Senza questa predisposizione da parte dei figli, non vi può essere misericordia. “Vai e non peccare più” disse Gesù all’adultera. La misericordia non è gratuita, ma va conquistata con la volontà di non peccare più, cambiando vita e allontanandosi definitivamente dal peccato; non potrà mai essere separata dall'impegno che porta a non peccare più.
La separazione del Padre verso il figlio, divenuto peccatore, non è solo fisica, come dice il Papa. Il peccato separa da Dio. Il peccato interrompe lo stato di grazia. Nel peccato si è separati da Dio, fino a quando non ci si pente, ci si converte e si cambia definitivamente vita. Questa concezione della Misericordia come dono incondizionato, quasi fosse una esigenza di Dio e non dell'uomo, affonda le sue radici nella teologia protestante; in specie nella concezione trinitaria di Jürgen Moltmann.

«Il contenuto della dottrina trinitaria è la croce reale di Cristo. La forma del Crocifisso è la Trinità»: l'errore che spesso fanno i teologi è, secondo Moltmann, quello di considerare la dottrina trinitaria come qualcosa di astratto che non riguarda la conoscenza del «Dio per noi» che si è rivelato in Gesù Cristo ma piuttosto la contemplazione della maestà divina in se stessa, invece Moltmann ritiene che «di fronte ai misteri della Trinità non ci troviamo [...] nell'atteggiamento filosofico della contemplazione: qui il problema che ci si pone è come si debba intendere Dio nell'avvenimento di Cristo.». Ciò che il nostro autore si propone di intraprendere è una ristrutturazione globale della dottrina trinitaria alla luce della croce di Cristo.

Avendo egli posto come base scritturistica, della sua teologia trinitaria il grido di Gesù in croce e la teologia paolina dell'abbandono, ora deve trarne tutte le conseguenze e chiedersi quale concetto di Dio può permetterci di comprendere questo abbandono di Gesù sulla croce. Se restassimo fermi alle vecchie teorie statiche su Dio, l'avvenimento della croce resterebbe incomprensibile e non potrebbe che portare all'ateismo di protesta: in quell'avvenimento, infatti, non è possibile scorgere il volto di un Dio che ama a meno che non operiamo una «rivoluzione nel concetto di Dio» che ci faccia comprendere la croce come manifestazione dell'amore trinitario. Ma in che modo nell'evento della croce si manifesta il Dio trinitario e perché questo Dio trinitario in quell'evento tragico si manifesta come amore?

Colpisce il fatto che in Marco al grido di abbandono di Gesù risponda l'esclamazione del centurione che riconosce Gesù come Figlio di Dio: questo perché quel grido, pur riprendendo un versetto del Salmo 22, non deve essere inteso nello stesso senso in cui lo intende il salmista perché «nel salmo 22 il termine «Dio mio» si riferisce al Dio d'Israele, al Dio del Patto, e viceversa l'«io» abbandonato è il giusto sofferente che richiama Dio alla fedeltà al Patto. Per Gesù invece l'invocazione «Dio mio» ricomprende l'intero contenuto del suo nuovo messaggio sul Regno che si avvicina dando grazia e liberazione, nonché il contenuto del suo proprio vivere in tale vicinanza con Dio da permettergli di parlarne sempre ed esclusivamente come del «Padre mio».». Qui dunque Dio non è solo il Dio del Patto ma il Padre di Gesù Cristo e l'io abbandonato non è semplicemente quello del giusto sofferente ma quello del Figlio, per cui, mentre il salmista reclama che Dio rispetti il suo Patto nei confronti del giusto, «Gesù qui reclama che il Padre si dimostri uno con lui, con il Figlio [...] . Con queste parole quindi Gesù rivendica il suo essere con il Padre in quel particolare rapporto nel quale egli è il Figlio» e questo ci fa capire come l'evento della croce sia un fatto che avviene tra Dio e Dio per cui, per comprendere il senso di questo avvenimento, è indispensabile parlare un linguaggio trinitario in quanto l'evento della croce è da interpretarsi non come un evento che accade tra Dio e l'uomo ma «come un evento intratrinitario che accade tra Gesù e suo Padre, e dal quale promana lo Spirito.». L'evento della croce, infatti, ci rivela le relazioni che stringono il Figlio al Padre e la sua efficacia liberante ci rende manifesta la processione dello Spirito dal Padre. Nell'evento della croce è Dio stesso che si manifesta, e si manifesta come Trinità: «Sulla croce il Padre e il Figlio sono separati nel modo più profondo nell'abbandono ed al medesimo tempo uniti nel modo più intimo nella consegna. Ciò che scaturisce da questo avvenimento che coinvolge il Padre e il Figlio è lo Spirito».

Se dunque ci poniamo la domanda su cosa significhi per Dio la morte di Gesù, dobbiamo rispondere che la morte di Gesù tocca Dio stesso. Moltmann, però, ritiene sia improprio parlare, come fanno altri teologi, di «morte di Dio» ma preferisce piuttosto parlare di «morte in Dio»: ciò che Moltmann rimprovera a quegli autori, come Rahner o Barth, che hanno parlato di «morte di Dio», è il fatto di ragionare ancora in maniera troppo teo-logica e troppo poco trinitaria. Quando, per esempio, Barth afferma che, nell'avvenimento della croce, «Dio era in Cristo», egli usa un concetto indifferenziato di Dio mentre la strada giusta per comprendere l'evento della croce è di ragionare in termini trinitari: infatti, «è il Figlio che sulla croce patisce e muore. Il Padre soffre con lui, ma non alla stessa maniera.». La morte di Gesù avviene dunque all'interno della storia del Dio trinitario, ma colui che muore sulla croce è il Figlio mentre il Padre partecipa di questa morte col suo dolore, e per questo motivo, secondo Moltmann, è molto più corretto parlare di patricompassianismo piuttosto che di teopaschismo e di «morte in Dio» piuttosto che di «morte di Dio».
Proprio perché in esso si rende manifesta questa differenziazione tra Padre e Figlio, è l'evento della croce che ci rivela la trinitarietà di Dio, è proprio grazie a questo evento, infatti, che «dal lato esterno di questo mistero, che chiamiamo «Dio», ora si accede alla sua sfera interna, che è trinitaria. Questa «rivoluzione nel concetto di Dio» ci è rivelata dal Crocifisso.». Quindi, più consideriamo l'evento della croce come un evento che tocca Dio stesso, più questo ci porta inevitabilmente a scomporre trinitariamente un concetto indifferenziato di Dio: la croce, dunque, è da considerarsi eminentemente un evento di differenziazione. Se usassimo, infatti, un concetto indifferenziato di Dio per intendere l'evento della croce ci troveremmo di fronte a dei paradossi insormontabili in quanto dovremmo affermare che «quanto si è verificato sulla croce fu un avvenimento svoltosi tra Dio e Dio, e che si operò una profonda scissione in Dio stesso, in quanto Dio abbandonò Dio e gli si oppose, e allo stesso tempo si rivela un'unità in Dio in quanto Dio era unito a Dio e adeguato a se stesso. Si dovrebbe così sfociare nel paradosso di un Dio che, sulla croce, morì della morte dell'empio e che tuttavia non morì.».
Se invece prescindiamo da un concetto di Dio derivato dalla metafisica e interpretiamo l'evento della croce in modo trinitario, cioè come un avvenimento che riguarda le relazioni tra le Persone, allora riusciamo a comprendere il vero significato della croce di Cristo come evento in cui Dio si manifesta per quello che veramente è. E questo avvenimento che ci manifesta Dio stesso nella sua essenza, ce lo manifesta come amore: infatti, se sul Golgotha il Padre abbandona il Figlio, nel Gethsemani il Figlio aveva accettato con dedizione il calice dell'abbandono e se il Figlio soffre la morte dell'abbandono, il Padre, nel suo amore, patisce la morte del Figlio, per cui si può affermare che «in questo sacrificio agiscono e patiscono entrambi, e la croce congiunge il Figlio e il Padre nella piena comunione di quel volere che si chiama amore [...] . Da questo avvenimento, che si verifica tra il Padre e il Figlio, scaturisce la donazione stessa, lo Spirito che accoglie coloro che sono abbandonati, che giustifica gli empi e vivifica i morti.». L'avvenimento della croce, quindi, è sì un evento di estrema differenziazione ma anche di totale comunione poiché in esso si verifica un dono reciproco fra il Padre e il Figlio da cui scaturisce un dono per noi, lo Spirito, e questo avvenimento di donazione totale, questo avvenimento di amore è Dio stesso nella sua essenza più profonda: la croce di Gesù ci manifesta che Dio è proprio così, «Dio è amore»!
Nell'evento della croce si rende visibile quel movimento di consegna che eternamente avviene tra Padre e Figlio e che è eternamente generatore dello Spirito, nell'evento della croce l'uomo è inglobato in quell'evento stesso e diventa parte dell'eterna storia d'amore intratrinitaria: «quello che Gesù, nel sermone della montagna, aveva presentato come amore per i nemici, con l'agonia di Gesù sulla croce e il dolore del Padre, nella forza dello Spirito, si è tradotto in un amore che coinvolge i senza Dio e senza amore.». Nella croce di Cristo, dunque, ogni storia umana viene inglobata nella storia di Dio perché «in Dio non c'è nulla che sia «fuori della porta».
Tale visione Moltmann la estende all'intera rivelazione. Egli infatti afferma: «La creazione è un'opera dell'umiliazione divina»: questa lapidaria affermazione costituisce una reale sintesi del concetto che Moltmann ha della creazione, che è basato sull'idea kenotica che egli ha di Dio e sulla convinzione che in Dio esiste una strettissima relazione fra actio e passio in quanto è la passione divina che fonda l'azione di Dio, dunque è il suo amore, che è la sua essenza stessa, che lo spinge a creare il mondo.
Di fronte alla creazione Moltmann si pone le seguenti domande: «Per Dio la creazione è necessaria o soltanto accidentale? Deriva dalla sostanza o dalla volontà divina? È eterna o temporale?».

Per rispondere a questi interrogativi, Moltmann ricorre al concetto di «contrazione» in Dio (tsim tsum) sviluppato dal cabalista ebreo Isaak Luria secondo il quale può esistere qualcosa di esterno al Dio onnipotente ed onnipresente, cioè può avvenire una creatio ex nihilo, solo se precedentemente è avvenuta un'autocontrazione in Dio. Dunque, «per creare un mondo al di fuori di lui», il Dio infinito deve aver dato spazio, in se stesso, ad una «finitudine» cioè, per creare i presupposti per l'esistenza dell'altro da sé, ha ritratto la propria presenza e potenza: questo spazio che si determina per l'autocontrazione di Dio Moltmann lo definisce «spazio di abbandono di Dio» perché esso è un «nihil nel quale Dio crea la sua creazione e la conserva all'esistenza».
Questo far spazio in se stesso ad un altro ci dà, secondo Moltmann, una raffigurazione di Dio di tipo femminile che si discosta nettamente dalla concezione cattolica che invece vede nel creato la femminilità che tutto riceve da Dio, vedendo nel grembo di Maria la struttura stessa dell'essere.. Questa immagine patriarcale di Dio i cristiani l'hanno mutuata, secondo Moltmann, dalla religione e dalla cultura romana per cui, a partire dall'epoca costantiniana, Dio è stato visto come il Signore e Padre, come colui che dispone «della vera potestas vitae necisque su tutti gli uomini.». Ma è questo il Padre verso cui Gesù si rivolgeva amorevolmente chiamandolo Abbà? È questo il Padre che Gesù ci ha insegnato a invocare attraverso la preghiera del Padre nostro? Dalle Scritture, secondo Moltmann, sembra proprio di no perché in esse «l'Abbà di Gesù è quel Dio che in modo materno si impietosisce di quelli che versano nell'abbandono, e un giorno «tergerà tutte le lacrime dai loro occhi» (Ap. 21, 4)».
Questo Padre «materno», dunque, che si impietosisce per la sua creatura è quel Padre che, per permettere a quella stessa creatura di nascere, le ha fatto spazio dentro di sé limitando se stesso e questa autolimitazione che Dio opera su se stesso per rendere possibile la creazione Moltmann la vede come una vera e propria autoumiliazione, una Kenosi, in quanto Dio contrae se stesso per far spazio all'altro, l'Infinito si auto contrae per fare spazio al finito.
Questa autoumiliazione ha luogo prima dell'atto della creazione per cui si può affermare che «il primo di tutti gli atti non è un atto di rivelazione ma un atto di occultamento, non una dilatazione ma una limitazione divina.». Dio, dunque, sarebbe kenotico fin dal principio perché contrae se stesso affinché l'altro possa avere uno spazio per nascere e tutto questo Egli lo fa per amore: «l'amore creatore di Dio è fondato sul suo amore che si umilia, si abbassa. È appunto l'inizio di quell'autoalienazione di Dio che Fil. 2 considera come il mistero divino del Messia. Già per creare il cielo e la terra Dio si è estrinsecato dalla sua onnipotenza ed ha assunto, da Creatore, l'immagine di servo.»


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