Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente

giovedì 5 ottobre 2017

Il Cammino di Santiago

di Marcello Veneziani. 
di Marcello Veneziani

Per parlarvi del cammino preferisco partire non da una riflessione ma da un’esperienza di vita che risale a un settembre di qualche anno fa. Mio figlio un giorno annunciò che sarebbe partito per il Cammino di Santiago de Compostela.
Cosa spinge un ragazzo con i capelli a treccine a partir da solo a piedi per Santiago, camminare trentatré chilometri al giorno e arrivare dopo trentatré giorni di cammino, alla meta? Non è un devoto o un praticante, si barricava in casa a suonare o a leggere poeti maledetti e scrittori on the road.
Viveva sregolatamente, confondendo, come faceva da lattante, il giorno con la notte; ha patito la vita e i suoi rovesci con la fragile ipersensibilità dei suoi coetanei. Annunciò di partire e all’inizio parve un’intenzione vaga e improbabile, una di quelle cose che si dicono un giorno e poi non si fanno.
Ti abitui al guscio di comodità e di malinconie e alla fine ci rinunci. Un mese col cielo per soffitto, nessuno a fianco, nove ore al giorno di cammino, ma chi te lo fa fare.
E invece un giorno di settembre come questo, il ragazzo si è svegliato prima dell’alba, alla stessa ora in cui nacque, tenne a dire, ed è partito per la sua seconda nascita; zaino in spalla dai Pirenei a Burgos, a Leon, in Galizia, fino al Santuario.
Una crociata verso ignoti. Magari un tempo ironizzava sui pellegrinaggi dei nonni a San Michele a Monte sant’Angelo, alla Madonna di Pompei, da Padre Pio.
Ha capito che le cose veramente necessarie sono inutili ed è andato in cerca del suo cielo. E ha rifatto pace con la luce del mattino, i risvegli e i cammini. Sono in tanti in quel cammino a non partire con la fede in tasca, poi qualcuno via via si ricrede, altri no, restano podisti di questa ginnastica celeste.
Le vie dello spirito sono infinite e si percorrono a piedi. E nell’ultimo tratto si prosegue solo a piedi. Un milione di passi per ritrovarsi. Più s’allontana più lo senti vicino.
Bentornato, figlio mio. Ecco un esempio su strada del cammino come ritorno.
Scrivendo su San Francesco e il cammino Massimo Cacciari ha sostenuto che “chi va da solo va col diavolo” e che la meta di Francesco non è Santiago ma la ferita aperta di chi chiama, ha bisogno.
Ma i più grandi itinerari della mente in Dio, per citare il francescano e agostiniano San Bonaventura, sono avvenuti in solitudine; i monaci, gli eremiti che scelsero la solitudine, lo stesso Francesco, incontrarono gli angeli e si aprirono a Dio, non certo al diavolo.
Ci sono due forme di cammino nel segno di Cristo: il cammino come ascesi e il cammino come carità.
Si può ridurre la via spirituale a cura per l’altro, la dedizione e il sacrificio a solidarietà e altruismo? Non capiremmo i mistici, gli asceti, i monaci, i santi, i teologi che dedicarono la loro vita e la loro mente a Dio. Anche Francesco non è un santo che ha camminato per prestare cura e soccorso a chi ha bisogno, cercava Dio, la redenzione, non la giustizia sociale.
Nei versi che Dante dedicò a Francesco nell’XI canto del Paradiso trovate il senso del suo amore per la Povertà: una via, un cammino per spogliarsi dei beni del mondo e offrirsi nudi a Cristo.
Il pauperismo solidale, la giustizia sociale, la lotta e la rivolta sono una lettura postuma, moderna, secolare e parziale del cammino di Francesco. Non si può ridurre il messaggio mistico e spirituale a messaggio sociale e umanitario.
Francesco cammina incontro a Dio e la sua vita, come quella di chi incontra sul suo cammino, è solo una tappa, una stazione, un annuncio di Cristo, non è la meta. Il suo cammino non ha come meta né l’io né tu, ambedue mortali, ma Dio. Non i fratelli ma il Padre.
In Homo Viator Gabriel Marcel scrisse che esistere significa essere in cammino. Ma il cammino è rivolto a una meta o è fine in sé? E la meta è situata in un luogo o oltre i luoghi, è nella vita terrena o nella vita eterna, è nell’incontro con gli altri o col mistero della vita e della morte, e infine col mistero dell’Essere?
E infine: il cammino genera l’homo novus o una seconda nascita, una ri-nascita che riporta alle origini?
Diciamo anzitutto che il cammino di cui stiamo parlando non è l’avventura con le “suole al vento” di Rimbaud, non è l’errare senza meta, il passeggiare di Walser o di Kierkegaard, l’andare a zonzo per curiosità di conoscere, non è l’on the road di Kerouac o l’arte del flaneur di Baudelaire e di Benjamin, che sono semmai annunci di un cammino che sorge da una motivazione radicale.
Quel cammino che mette in gioco se stessi, fino a liberarci dalla gabbia dell’ego e proiettarci non solo oltre il nostro particulare, ma anche oltre la condizione umana. Ci fa andare per il mondo ma ci allontana dalla mondanità.
È, sì, un’inquietudine a spingerci ma non è pura irrequietezza, alla Chatwin per intenderci; è una tensione rivolta a una meta che darà senso alla vita, al cammino terreno. Il pre-requisito di quel camminare è liberarsi del superfluo e da ogni legame coi beni caduchi; rendere essenziale il bagaglio.
Nel cammino si va incontro al mondo e non, come avviene grazie alla tecnologia e alla rete, fare che il mondo venga da noi, sul video; o viaggiare stando fermi come accade coi mezzi di trasporto. Camminare è mobilitarsi nel corpo e nell’anima, negli occhi e nei piedi.
Se l’uomo intravisto dal cieco di Betsaida è un albero che cammina, come scrive Marco nel Vangelo, le sue radici sono interiori e i suoi frutti sono ulteriori.
Ma alla fine, ogni viaggio è circolare.
La motivazione che ci mosse si congiunge con la meta, il cammino coincide con l’approdo. Nascere in cammino è in realtà tornare all’origine; la ricerca del nuovo si rivela nostalgia dell’Inizio. C’è una scritta luminosa che appare nei voli per l’America Latina: tiempo para el destino.
A leggerla testualmente vuol dire semplicemente il tempo che resta per arrivare a destinazione. Ma a leggerla con altri occhi indica il senso compiuto di una vita: vivere è il tempo che ci separa dal destino. Il tempo trascorso nel cammino e lo spazio percorso nel cammino portano a compimento il nostro destino, ciò a cui siamo destinati.
Perciò vale alla fine quel che scrive Novalis in Enrico di Ofterdingen: “Dove stiamo andando? Sempre verso casa”. Il cammino è da casa a Casa, dall’uno all’Uno, tramite il mondo e gli altri, ma rivolto a un’Origine che va oltre l’io, l’altro, il mondo. O per dirla con San Francesco tramite il creato e le creature verso il Creatore.
Il cammino ha molti esiti ma uno prevale su tutti: è il ritorno a Casa, laddove partimmo. Quell’andare, alla fine è un tornare. Il cammino è un ritorno

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