Ieri è stato il compleanno di mio figlio e, come d'abitudine, la famiglia si è riunita per la torta, le candeline ed ogni ritualità del caso. Alla festicciola, in realtà poco più che una riunione di famiglia essendo mio figlio ormai grande, è intervenuta anche mia sorella e la sua famiglia che rappresentano anche tutto il resto della famiglia che ho a Milano, essendo io napoletano ed avendo a Napoli il gran numero dei parenti. Al di là dei discorsi ricorrenti in queste occasioni, che ricordano il festeggiato quando era un bambino, la conversazione tocca anche elementi della fede e della Chiesa, come spesso accade con mia sorella che, come e molto più di me, è cattolica praticante, impegnata nella vita parrocchiale, specie nella formazione delle coppie che si avviano al matrimonio. Tra le altre cose la conversazione sfiora (per colpa mia... Lo ammetto) la "correctio filialis" e "l'Amoris Laetitia" e si apre un divario tra le posizioni che non pensavo potesse esistere.
La cosa che mi ha colpito è che, nella posizione di mia sorella, condividere o meno il merito delle questioni non conta, conta invece il fatto che il gesto della correctio filialis sia, agli occhi della Chiesa come all'esterno di essa, un'attacco al Papa e come tale inaccettabile. Alle mie considerazioni nel merito lei rispondeva dicendo di non essere una teologa, che era una cosa che non la riguardava e che non riguardava il suo rapporto con Dio e che l'unica cosa che poteva fare era pregare, cosa che già fa abitualmente. Il mio sconforto è stato grande, innanzitutto perchè il pericolo di superbia da parte mia è reale, visto che nemmeno io sono laureato in teologia, e poi perchè il rischio che si distrugga quello che si vuole proteggere è nello stato delle cose e sentirmi imputare la responsabilità della divisione nella Chiesa mi ha spezzato il cuore, visto che io la correctio filialis l'ho firmata. A mente fredda però devo trarre necessariamente delle conclusioni da tale confronto, che si rivela paradigmatico della situazione della Chiesa di oggi.
La cosa che mi ha colpito è che, nella posizione di mia sorella, condividere o meno il merito delle questioni non conta, conta invece il fatto che il gesto della correctio filialis sia, agli occhi della Chiesa come all'esterno di essa, un'attacco al Papa e come tale inaccettabile. Alle mie considerazioni nel merito lei rispondeva dicendo di non essere una teologa, che era una cosa che non la riguardava e che non riguardava il suo rapporto con Dio e che l'unica cosa che poteva fare era pregare, cosa che già fa abitualmente. Il mio sconforto è stato grande, innanzitutto perchè il pericolo di superbia da parte mia è reale, visto che nemmeno io sono laureato in teologia, e poi perchè il rischio che si distrugga quello che si vuole proteggere è nello stato delle cose e sentirmi imputare la responsabilità della divisione nella Chiesa mi ha spezzato il cuore, visto che io la correctio filialis l'ho firmata. A mente fredda però devo trarre necessariamente delle conclusioni da tale confronto, che si rivela paradigmatico della situazione della Chiesa di oggi.
Anch'io prego perchè la situazione evolva al meglio per la Chiesa, ma non posso chiedere a Dio di fare quello che dovrei fare io, limitandomi a coltivare la mia salvezza personale e delegando a Lui tutto il resto. Non posso cioè ignorare che ogni cristiano ha il dovere di testimoniare la Verità e che Cristo affida ad ogn'uno di noi un mandato missionario, che prevede sicuramente un'indispensabile azione di Dio in noi, ma anche il coraggio e la volontà umana, così come il senso di reponsabilità per la salvezza del nostro prossimo. Questo è vero relazionandosi ai lontani, ma è vero anche ed a maggior ragione nella relazione con chi è con noi Chiesa. La Chiesa, nel suo principio esistenziale, non è una struttura a cui aderire per se stessa; il suo senso non risiede in se stessa in quanto comunità umana, ma nel suo essere per Cristo, con Cristo ed in Cristo, fuori cioè dal tempo e dallo spazio, fuori dal mondo irredento, luogo eterno di comunione con Dio ed i giustificati in Cristo di ogni tempo. Il magistero della Chiesa è uno, perchè è lo stesso magistero di Cristo e nessuna prassi può entrare in contraddizione con esso, perchè la prassi (o pastorale come la si chiama oggi) trae da esso ogni legittimità; va da sè che se una prassi invece entrasse in contraddizione con esso sarebbe di per se stessa illegittima, qualunque sia la fonte da cui trae motivazione ed origine. In questo caso tale prassi come dovrebbe essere intesa dal cristiano? Una prassi che teorizzi la possibilità, in alcuni casi la necessità, per l'uomo di restare nel proprio peccato di quale magistero è espressione? Se la motivazione dell'incarnazione è redentiva, una tale prassi non va a vanificare il sacrificio stesso di Cristo sulla croce? E tale prassi non chiude la porta della salvezza che invece dovrebbe aprire, offrendo una facile illusione di appartenenza ecclesiale omninclusiva che va invece a sostituirsi alla porta stretta che tutti siamo chiamati ad attraversare?
Il dramma che vive una parte della Chiesa stà nel fatto che tale prassi si stia affermando a partire dai suoi pastori, mentre la restante parte vive con la testa infilata nella sabbia, difendendo una struttura che così rischia sempre più di essere autoreferenziale e quindi troppo umana per poter pretendere ancora di essere quello che Cristo vuole che sia. La Chiesa, infine, non è questione di quantità, ma di Verità e la Verità non cambia; " ...se il tuo occhio ti dà scandalo, cavalo. Perchè è meglio entrare con un solo occhio in paradiso che con entrambi essere gettato nella Geenna".
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