di Gennaro Cangiano.
Nel bombardamento mediatico a cui siamo continuamente sottoposti cosa manca?
Ho provato spesso a rispondere a tale domanda e più mi scervello, più la risposta è che manca la reale sostanza delle cose. Tutto è superficiale, ridotto a luoghi comuni, eppure mai nella storia gli uomini hanno avuto la possibilità e gli strumenti per guardare gli eventi, se stessi e la società come oggi. Le informazioni sono pressoché infinite; basta uno smartphone e si hanno tutte le informazioni di cui abbiamo bisogno a disposizione. Eppure non si riesce ad andare oltre gli slogan e la capacità di lettura dell'uomo medio si riduce a un twitt: poche righe. Il risultato è che comprendiamo sempre meno noi stessi e gli altri e sempre di più la relazione sociale lascia il posto alla diffidenza, alla paura dell'altro in quanto sconosciuto.
Guardando alla fase storica che stiamo vivendo, soffermando lo sguardo sul nostro tempo, sforzandoci di vedere in esso il nostro passato, non solo recente o come individui isolati, diventa invece possibile vedere aspetti e lineamenti del nostro essere che non sempre, nella nostra superficiale osservazione quotidiana, sono realmente evidenti.
Già il genio di Heidegger aveva individuato, nella sua ricerca sull'essenza dell'essere, quanto l'essere umano sia in relazione inscindibile con il mondo, fino alla definizione che ogni essere dell'uomo non può esistere fuori dal mondo o fuori da un mondo, così come contemporaneamente è in relazione inscindibile con il tempo, definendo l'essere dell'uomo come il suo passato in relazione con il suo futuro nella determinazione del tempo presente.
Queste riflessioni ci aiutano a capire che la visione che abbiamo di noi stessi, della storia, della civiltà, rischia di essere una pura ideologia se non è capace di aprirsi ad una prospettiva evoluta di osservazione. Per essere chiari: da dove viene il nostro individualismo? E' caratteristica della nostra essenza o invece non è piuttosto solo una visione ideologica di noi stessi, costruita nel corso dei secoli, ma sostanzialmente però falsa nella sua impostazione?
Progressivamente la modernità ha provveduto all'emancipazione dell'individuo da ogni legame che caratterizzava il proprio essere sociale; fino a che, si può ben dire, si è arrivati ad una vera e propria atomizzazione della nostra socialità fino quasi a renderla irriconoscibile se messa in relazione a quello che era non solo secoli fa, ma anche pochi decenni fa. Quello che Heidegger affermava negli anni venti del XX secolo è ancora condivisibile oggi? L'uomo è ancora il suo passato? Da dove viene questa atomizzazione; questa prospettiva angolare determinante che ci fa vedere noi stessi solo uno per volta e non come un tutt'uno? Sembra essere l'epilogo nefasto a cui è giunto il percorso millenario della civiltà umana; resta da capire se questo epilogo è realmente una fine, con tutto quello che questo comporta, o se invece non esistano in embrione i presupposti per un nuovo inizio, per una svolta evolutiva, per dirla con le parole del filosofo Marco Guzzi.
Nel tentativo di approfondire la risposta ad una domanda tanto grave, non si può fare a meno di posare lo sguardo sull'uomo in quanto tale. Anche volendo accettare la visione antropologica più individualista, non ci si può esimere dal riconoscere determinati tratti comuni ad ogni essere umano, che fanno di ogni uomo un espressione completamente rappresentativa della sua specie e quindi di un tutto, che a sua volta è parte del mondo in cui esiste e che è sempre condizione indispensabile per quella stessa esistenza e che è a sua volta parte di un universo che ne determina in maniera specifica quelle stesse condizioni. In tale visione prospettica l'individuo perde il suo valore paradigmatico, per cedere ancora terreno ad una visione più antica, ma, allo stesso tempo, più nuova dell'essere umano. Scendendo ancora con lo sguardo più in profondità da questa che è indubbiamente una visione ancora superficiale, guardando cioè alla sola umanità, vediamo che l'individuo ancora non trova il posto che dovrebbe avere in una strutturazione atomistica come quella che ho definito ideologia dell'uomo; anzi l'individuo sembra proprio non esistere. Tutta la sua esistenza è infatti pura relazione. La sua venuta all'esistenza è sempre frutto di scelte altrui, la sua sopravvivenza, la sua crescita e maturazione, dipendono in maniera totale dal gruppo sociale in cui viene ad essere e niente in realtà lascia scorgere quell'individuo che ideologicamente ci ostiniamo a vedere, autonomo e detentore di una dignità sganciata da quella del gruppo in cui vive. Anche il traguardo che rappresenta la giurisprudenza sui diritti dell'uomo non rappresenta affatto l'identificazione, come pure qualcuno sostiene, del singolo come mattone della società umana e come unico soggetto detentore di diritti; in quanto non esiste alcun diritto che possa essere soddisfatto al di fuori del contesto sociale che lo riconosce. Il concetto stesso di diritto prevede come condizione che vi sia una relazione e non una relazione qualsiasi, ma tra esseri umani. difficilmente infatti si potrà far sì che una belva feroce non sbrani un uomo cercando di convincerla del suo diritto alla vita. Non esiste alcun diritto al di fuori della società umana e questo vale anche per l'uomo che volesse tirarsene fuori.
Alla luce di questo ragionamento si capisce di più come l'emancipazione del singolo da ogni legame abbia portato all'alienazione che caratterizza le nostre società. Emanciparsi ad esempio dalla famiglia ha portato oggi a credere che la stessa famiglia non sia necessaria all'uomo per esistere, ma è appunto ideologia e non la realtà delle cose. Vivere in tale ideologia produce comportamenti consequenziali in cui l'uomo si auto individualizza, precarizzando ogni legame affettivo suscettibile di produrre la stabilità necessaria alla costruzione di legami familiari, utilizzando le proprie risorse non più in prospettiva della costruzione di una famiglia o a beneficio della propria famiglia, ma esclusivamente di se stesso. Il consumismo non sembra essere altro che questo; la conseguenza naturale dell'ideologia individualista e come tale voluta e coltivata dall'attuale ideologia economica dominante.
Questa che pare essere una moderna dimensione in cui l'uomo viene ad essere, come conseguenza dell'evoluzione scientifica e tecnologica, in realtà è la riproposizione di un conflitto archetipico che dimensiona l'uomo di ogni tempo ed epoca. La conflittualità che cioè caratterizza da sempre l'affermazione di sè nei confronti del gruppo sociale. Nel corso dei secoli tale conflitto è sempre stato mediato è risolto nella ritualità religiosa che, riunendo il gruppo in una stessa soggezione assoluta ed incommensurabile, produceva i meccanismi solidali che hanno prodotto ogni forma di civiltà conosciuta. Lo stesso stato di diritto non è altro che l'evoluzione laica di una regolamentazione divina della società umana, senza la quale l'uomo non avrebbe mai alzato la testa al di sopra del puro stato bestiale. È indicativo infatti che la dissoluzione di ogni valore suscettibile di creare socialità stia oggi soccombendo in maniera direttamente proporzionale con la dismissione della pratica religiosa, sostituendo ad essa una generica ed autocratica spiritualità individuale che non unisce, ma accelera la frammentazione. Gli antichi non avrebbero avuto difficoltà a definire tale condizione come "diabolica" (dia-ballo= colui che divide), mentre oggi si stenta in qualsiasi plausibile definizione per lo smarrimento di ogni riferimento culturale e tradizionale. Quello che per i nostri avi era scontato, per noi oggi torna ad essere un irraggiungibile traguardo, avendo inesorabilmente e volontariamente rinunciato ad ogni possibilità di orientamento, completamente abbagliati dalle luci commerciali che, per definizione, servono a incentivare e non a colmare i vuoti, offrendo la soddisfazione di innumerevoli bisogni finti, ma senza lasciare spazio alla realizzazione dell'uomo in quanto tale; ridotto così da essere ragionante a consumatore.
Concetti che sono fondanti della relazione sociale umana sono completamente travisati, stravolti, completamente svuotati del loro originario significato, di cui continuano ad avere il solo suono fonetico. Pensiamo ad esempio a come comunemente si considerano i concetti di libertà e di legge in contraddizione tra loro. Come ogni luogo comune, anche questo è verosimile solo in superficie, ma estremamente errato se lo si analizza in profondità.
Nel senso che esso, partendo da definizioni errate sia della libertà che della legge, difficilmente potrà penetrare nel reale significato della relazione tra le due cose; mai infatti da prospettive errate si distinguono concetti e definizioni giuste della realtà. Proviamo ad andare invece realmente in profondità; abbastanza almeno da recuperare una consapevolezza che invece il senso comune sembra aver smarrito, perché dominato appunto da un'angosciante e fuorviante superficialità.
Cerchiamo innanzitutto di definire i concetti, per poi soffermarci invece sulla relazione che essi hanno tra loro. Cominciamo dalla libertà. Cos'è la libertà?
La risposta alla domanda sembra essere lapalissiana; tutti risponderebbero che è libero chi fa ciò che vuole. Questa è però una delle più grandi sciocchezze che gli uomini abbiano mai potuto pensare, accompagnata quasi sempre da una sciocchezza ancora più grande e pericolosa, sintetizzata nella frase "la mia libertà finisce dove comincia la tua". Un idiozia sconvolgente.
Il combinato disposto di queste due palesi storture logiche ha prodotto le più grandi frustrazioni sociali, politiche e psicologiche che l'umanità abbia mai vissuto; ma andiamo per ordine e analizziamo la prima definizione: è libero chi fa ciò che vuole.
Se tale definizione fosse corretta si dovrebbe innanzitutto dedurre che quella volontà debba essere anch'essa libera da ogni condizionamento e quindi completamente spontanea. Più che volontà si dovrebbe dire quindi desiderio, che è tra i moti interiori più spontanei per definizione.
Ora... cosa desidero? Tutto! Il desiderio non ha limiti, desidera tutto il desiderabile senza limiti qualitativi o quantitativi; tutto il pensabile è anche potenzialmente desiderabile, ma è chiaro che non potrò mai appagare un desiderio infinito, perché ci sono dei limiti strutturali insuperabili che vedono impossibile che il finito (io) possa contenere in qualche modo l'infinito. Faccio un esempio per essere chiaro. Su una tavola imbandita ci sono pietanze di tutti i tipi; lasagne, cannelloni, torte al cioccolato, frutta, arrosto, salsicce, ecc. E tutto in quantità tale da sfamare 100 persone. Io desidero tutto, ma c'è la possibilità che io possa appagare il mio desiderio? Evidentemente no. Esiste infatti un limite strutturale insuperabile che è la dimensione del mio stomaco, che non potrà mai contenere tutto ciò che desidero. Quindi? Quindi dovrò decidere quale cibo mangiare e va da se che, nel momento in cui avrò deciso, il desiderio che ho di tutto il resto in tavola sarà inesorabilmente frustrato.
La verità quindi non è affatto che la libertà sia essere liberi di fare ciò che si desidera, ma piuttosto la capacità di scegliere con consapevolezza. È solo se sono consapevole dei limiti che ho che potrò realmente godere della mia libertà; e quali sono questi limiti? Sono sostanzialmente due: le leggi naturali e le leggi morali.
Intendo, per leggi naturali, la descrizione degli eventi per come accadono; come, ad esempio, un corpo lasciato nel vuoto che cade. Esso cade e basta, è così per legge naturale, esattamente come la dimensione limitata del mio stomaco nell'esempio precedente. Le leggi morali invece riguardano la descrizione degli eventi per come "devono" accadere. Si badi che, a differenza delle leggi naturali, a queste si può dire di no, anche se a prezzo troppo elevato per la nostra umanità. Le leggi morali regolano infatti la nostra capacità relazionale, determinando il paradigma che permette all'uomo di realizzarsi socialmente. Badate bene anche che le regole morali di una società non sono una costruzione dell'individuo, ma lo precedono, esistendo già nel gruppo sociale in cui nasce. È chiaro che queste regole l'individuo può trasgredire, ma il prezzo è l'emarginazione dal gruppo e l'interruzione, totale o parziale, di quelle relazioni sociali tra l'individuo e il gruppo che quelle regole ha determinato. Si faccia attenzione al fatto che tale situazione di emarginazione mette in discussione la stessa sopravvivenza dell'individuo; in assenza di società infatti lo stesso non sarebbe mai esistito (la coppia è la più semplice forma di società); mentre invece in assenza di quell'individuo la società sarebbe comunque esistita e continuerebbe comunque a esistere. Le leggi morali sono quindi limiti effettivi della libertà umana e sono la condizione necessaria perché l'individuo possa davvero realizzarsi secondo le proprie potenzialità e secondo un interesse che non è solo individuale, ma anche comune e quindi sociale.
Alla luce di tali riflessioni risulta chiara l'idiozia della seconda affermazione citata prima e cioè che "la mia libertà finisce dove comincia quella dell'altro", perché tale definizione finisce per prevedere in se in un sol colpo sia il conflitto che la prevaricazione. Per capirci torniamo all'esempio della tavola imbandita. Questa volta sul tavolo c'è una sola porzione di lasagna e ci siamo io e mio fratello. Entrambi desideriamo mangiarla ed entrambi non abbiamo il limite naturale ad impedire la soddisfazione del desiderio, visto che la porzione entra sicuramente nello stomaco di entrambi. Secondo la definizione in esame la mia libertà di soddisfare il desiderio finisce dove comincia quella di mio fratello, ma anche viceversa e cioè la sua libertà
finisce dove comincia la mia. Quindi? La frustrazione di entrambi porterà inevitabilmente al conflitto e mio fratello, che è più grosso, avrà la meglio e soddisferà il suo desiderio a mie spese. Solo l'esistenza di una legge morale che regola le relazioni potrà evitare il conflitto e spingerci a decidere di dividere in parti uguali la porzione perché "è giusto così".
È chiaro ora che la definizione di libertà è molto diversa da quella che superficialmente ne dà il senso comune. È libero infatti chi è capace di scegliere con la giusta consapevolezza dei propri limiti. La legge, come evoluzione della morale in diritto, non è affatto quindi una costrizione della libertà individuale, ma l'istruzione necessaria perché questa possa pienamente realizzarsi nell'interesse comune, nella misura in cui tale interesse comprende la piena realizzazione dell'individuo secondo le sue potenzialità.
Ma quale legge morale? Quale è cioè la morale che dovremmo riconoscere come antecedente a noi e degna di regolamentare la nostra esistenza?
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