Credo di essere in grado di poter dare il mio modesto contributo sul caso della “nuova” traduzione dell’ultima parte del Padre Nostro nella Bibbia CEI. La parte a cui mi riferisco, tradotta e utilizzata per secoli, è proprio il versetto di Matteo 6,13a: “non ci indurre in tentazione”, che nella nuova versione è stato tradotto con “non abbandonarci alla tentazione”. Naturalmente anche qui ha prevalso il “politicamente corretto”. Come può Dio “indurre” in tentazione? Allora cambiamo con una traduzione più morbida, più sentimentale.
Prendiamo dunque il versetto in questione dal testo originale greco: “καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν”. La parola di interesse è “εἰσενέγκῃς” (eisenekes), che per secoli è stata tradotta con “indurre”, ed invece nella nuova traduzione vediamo “non abbandonarci”. Il verbo greco “eisenekes” è l’aoristo imperativo di “eispherein” composto dalla particella avverbiale eis (‘in, verso’, indicante cioè un movimento in una certa direzione) e da phérein (‘portare’) che significa esattamente ‘portar verso’, ‘portar dentro’. Per di più, è legato al sostantivo peirasmón (‘prova, tentazione’) mediante un nuovo eis, che non è se non il termine già visto, usato però qui come preposizione. Tale preposizione regge naturalmente l’accusativo, caso di per sé caratterizzante il “complemento” di moto a luogo. Anzi, a differenza di quanto accade ad esempio in latino e in tedesco con la preposizione in, eis può reggere solo l’accusativo. Come si vede, dunque, il costrutto greco presenta una chiara “ridondanza”, ossia sottolinea ripetutamente il movimento che alla tentazione conduce, per cui è evidentemente fuori luogo ogni traduzione – tipo “non abbandonarci nella tentazione” – che faccia invece pensare a un processo essenzialmente statico.
Prendiamo dunque il versetto in questione dal testo originale greco: “καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν”. La parola di interesse è “εἰσενέγκῃς” (eisenekes), che per secoli è stata tradotta con “indurre”, ed invece nella nuova traduzione vediamo “non abbandonarci”. Il verbo greco “eisenekes” è l’aoristo imperativo di “eispherein” composto dalla particella avverbiale eis (‘in, verso’, indicante cioè un movimento in una certa direzione) e da phérein (‘portare’) che significa esattamente ‘portar verso’, ‘portar dentro’. Per di più, è legato al sostantivo peirasmón (‘prova, tentazione’) mediante un nuovo eis, che non è se non il termine già visto, usato però qui come preposizione. Tale preposizione regge naturalmente l’accusativo, caso di per sé caratterizzante il “complemento” di moto a luogo. Anzi, a differenza di quanto accade ad esempio in latino e in tedesco con la preposizione in, eis può reggere solo l’accusativo. Come si vede, dunque, il costrutto greco presenta una chiara “ridondanza”, ossia sottolinea ripetutamente il movimento che alla tentazione conduce, per cui è evidentemente fuori luogo ogni traduzione – tipo “non abbandonarci nella tentazione” – che faccia invece pensare a un processo essenzialmente statico.
Il latino “inducere”, molto opportunamente usato da san Girolamo nella Vulgata (traduzione della Bibbia dall’ebraico e greco al latino fatta da Girolamo nel IV secolo), essendo composto da ‘in’ (‘dentro, verso’) e ‘ducere’ (‘condurre, portare’),
corrisponde puntualmente al greco eisphérein; e naturalmente è seguito da un altro in (questa volta preposizione) e dall’accusativo temptationem, con strettissima analogia quindi rispetto al costrutto greco. Quanto poi all’italiano indurre in, esso riproduce esattamente la costruzione del verbo latino da cui deriva e a cui equivale sotto il profilo semantico. Dunque la traduzione più giusta, che rimane fedele al testo è quella che è sempre stata: “non ci indurre in tentazione”.
Il rispetto per il Testo Sacro è fondamentale, e si dimostra nella fedeltà delle traduzioni con i testi originali. Ma la tendenza oggi è quella di far prevalere il “politicamente corretto”, la traduzione morbida, mielosa. Infatti molti si sono chiesti: Come può Dio “indurre” in tentazione? Ci sono tantissimi passi biblici che dimostrano come Dio induce alla tentazione e alla prova. Ricordate Genesi 22 quando il Signore chiede ad Abramo il sacrificio del figlio Isacco? E’ vero. Appena vide la sua fedeltà l’angelo fermò la mano di Abramo. Ma provate a pensare lo stato d’animo di questo patriarca, mentre saliva sul monte Moria per uccidere suo figlio in obbedienza a Dio; mi viene in mente anche Esodo 4,24 dove si dice che il Signore, mentre Mosè tornava in Egitto dopo la sua fuga “gli venne contro e cercò di farlo morire”; oppure il capitolo 1 del libro di Giobbe, dove si legge a chiare lettere che Dio da il permesso a satana di tentarlo e provarlo. O ancora nel Nuovo Testamento dove si dice che Gesù “fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1), e appare chiaro che è lo Spirito Santo che conduce Gesù nel deserto per subire la prova della “tentazione”. E anche San Paolo in 2 Cor 12,7 dice: “Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia”. La Scrittura è piena zeppa di citazioni simili. Dio ti mette nella prova, anche quando questa prova è una “tentazione”. Ecco allora il vero senso del versetto “non ci indurre in tentazione”. E’ la preghiera al Padre, di noi figli, che chiediamo di essere risparmiati dalla “tentazione”, di uscirne indenni, come i tre giovani nella fornace (Daniele 3). Del resto se vogliamo seguire il Signore in modo autentico il Siracide 2 ci dice: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione”.
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