di Francesco Lamendola
La società moderna ha prodotto una cultura, un’arte, una scienza da nani; e i nani della cultura hanno decretato che il reale deve essere tagliato sulla loro misura, altrimenti potrebbero sfigurare: sicché hanno deciso di passare per giganti, stabilendo a tavolino che il reale non è poi così grande come sembrava, anzi è piuttosto limitato, e che gli uomini, dopotutto, sono la cosa più grande che esista al mondo.
Vi è stato, quindi, un generale rimpicciolimento della filosofia: infatti i “pensatori” moderni, vergognandosi della piccolezza dell’uomo in quanto tale (cosa di cui i loro predecessori, per secoli e secoli, non si erano vergognati affatto, pur riconoscendola francamente), ma sentendosi, quanto a se stessi, dei grand’uomini, hanno deciso che tutto il pensiero andava rivoluzionato, ovviamente compresa la teologia, la più “imbarazzante” di tutte le discipline: quella che proclama l’infinità di Dio e la piccolezza dell’uomo.
Così, hanno deciso di rimpicciolire la teologia, rifacendola a misura d’uomo, e non più considerandola sotto la prospettiva del proprio oggetto di studio, cioè Dio: e hanno chiamato questo rimpicciolimento “svolta antropologica”, come se avessero scoperto l’acqua calda e come se, per merito loro, stesse per iniziare, dopo duemila anni d’ignoranza e di oscurità, la splendida era della vera conoscenza di Dio, non più soffocata dalle fumisterie... soprannaturali.
Dire che la teologia è entrata nella “svolta antropologica”, espressione cara a Karl Rahner e a tutti i sedicenti teologi che hanno preso d’assalto, violentato e stravolto il Concilio Vaticano II, per inaugurare una “svolta” anche nell’ambito della Chiesa cattolica, della liturgia, della pastorale, del cosiddetto dialogo interreligioso (ridotto a reciproci complimenti con protestanti e islamici, e a bordate su bordate di disprezzo per i cattolici “tradizionalisti”), dell’etica (sempre più sbilanciata a favore di matrimoni omosessuali, aborto ed eutanasia) e, larvatamente, dello stesso dogma (meglio non parlare più, ad esempio, di Maria e del suo ruolo nel piano della Redenzione; e meglio tacere del tutto dei miracoli di Cristo, ivi compresa la stesa Resurrezione), significa dire, puramente e semplicemente, che ha smesso di essere “teologia” ed è diventata “antropologia del religioso”, sullo stesso piano dell’antropologia atea e immanentista del positivismo, ad esempio di un Émile Durkheim o di un Claude Lèvi Strauss.
Non solo: per realizzare la cosiddetta “svolta antropologica”, intrisa di modernismo e di progressismo del genere più corrivo, i signori teologi post-conciliari hanno dichiarato che una parte dell’analisi antropologica del marxismo e di quella dell’esistenzialismo potevano essere dei buonissimi punti di partenza per la riflessione sul divino, e che non c’era nulla di strano, per un ”teologo” cattolico, servirsene ampiamente, anzi, fare proprie le loro categorie di base: vale a dire, che il mondo è sostanzialmente “buono” (come per i marxisti: basta rimetterlo in ordine, eliminando i ricchi) e che quello che conta veramente non è l’essenza dell’essere, ma l’esistenza degli enti (come per gli esistenzialisti): “et voilà”, il gioco è fatto, duemila anni di errori teologici sono cancellati e la “nuova” teologia può ripartire daccapo, verso le magnifiche sorti e progressive, fra gli applausi della folla e i buoni auspici dei marxisti e degli esistenzialisti, giustamente fieri di aver realizzato il loro obiettivo storico: la distruzione del pensiero cristiano nella sua originalità, specificità e irriducibilità alle categorie del mondo profano.
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Ha scritto Antonio Margaritti nel suo saggio "Per una ricerca sulla svolta antropologica in teologia" (in: AA. VV:, "La teologia italiana oggi", a cura della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, Milano, La Scuola/Morcelliana, 1979, pp. 247-249):
«Studiando "gli orientamenti presenti del pensiero religioso" su "Etudes" 1946, in un saggio che viene considerato il manifesto della "Nouvelle Théologie", Danielou riflette sul rapporto della teologia con il pensiero contemporaneo , svolgendo, in maniera organica, motivi che giustificano la necessità e specificano le modalità della svolta antropologica in teologia. Sul versante critico, il saggio costata la estraneità della teologia manualistica alle categorie della storicità, soggettività, e coesistenza, che sono proprie della riflessione antropologica contemporanea. La ragione della estraneità è individuata nella assunzione, da parte della teologia manualistica, del mondo "immobile" greco, come proprio mondo. Il mondo greco pone la realtà nelle essenze, più che nei soggetti, e conseguentemente tende a restringere, se non a sopprimere, lo spazio della storia, cioè ad ignorare il dramma degli "universali concreti", che trascendono ogni essenza, e si distinguono in base all'esistenza, cioè non si distinguono in base all'intelligibile o all'intellezione, ma non base al valore e all'amore. Il mondo greco, conseguentemente, sottovaluta la coesistenza, per la quale la vita del singolo s'intreccia con la vita di tutti, intreccio che, comunemente, marxismo ed esistenzialismo affermano. Daniélou afferma chiaramente che "l'infinito della libertà" è l'acquisizione centrale del pensiero contemporaneo. La teologia non potendo condividere tale affermazione, si distanzia, almeno nella sua forma manualistica, dal pensiero contemporaneo, pagando questo distacco, con l'estraneità alle categorie di storicità, soggettività, intersoggettività. Sul versante positivo, Danielou afferma che la teologia ha incominciato ad allinearsi sulle direttrici del pensiero contemporaneo, e questo avviene su alcuni punti fondamentali. Per quanto riguarda la storicità, si fa sempre più diffusa la convinzione, che il tempo non è un semplice riflesso dell'eternità, ma una crescita, in cui la successione è un progresso in senso forte, cioè una acquisizione di valore, anche se questa prospettiva ottimistica deve essere completata con la realtà del peccato originale, che pone in luce dati altrettanto essenziale del pensiero cristiano, affermazioni come le seguenti: "L'uomo prima di Cristo è sotto il regime del peccato originale, la libertà umana porta la responsabilità di questo peccato, gli uomini sono solidali nel peccato": La prospettiva ottimistica e la prospettiva pessimistica si trovano nel pensiero contemporaneo, il quale procede tra l'abisso della bontà del mondo (prospettiva presentata principalmente dai marxisti) e l'abisso che l'assurdità del mondo che alcuni esistenzialisti (Danielou ricorda esplicitamente Kierkegaard e Simone de Beauvoir) pongono in luce. Il conflitto del pensiero contemporaneo trova l'espressione suprema nel mistero cristiano, e perché la teologia sia presente al nostro tempo, non deve fare altro che portare alle estreme conseguenze le sue proprie esigenze, sottraendole alle estremizzazioni e contrapposizioni in atti nella cultura contemporanea.
Per quanto riguarda la "deoggettivizzazione" di Dio ed "il superamento della razionalizzazione del mistero di Dio", che ha caratterizzato la riflessione teologica manualistica, Danielou si riferisce in particolare a Kierkegaard, rilanciando il mistero di Dio "nascosto nelle tenebre che non si rivela che per mezzo dell'amore", e perciò richiama il teologo alla riverenza. La svolta necessaria in teologia deve ritrovare i tratti caratteristici della teologia negativa, e dare rilievo alla "irreducibilità dei concetti" più che al "concatenamento dei concetti" secondo la logica aristotelica o la dialettica hegeliana. Analisi come quella di R. Otto per la categoria del sacro, M. Scheler per l'agape cristiana, di G. Marcel per la speranza, sono da considerare regolate da un metodo "incompleto ma preciso" e fondamentale per una teologia che vuole salvare la propria autonomia nei confronti delle presentazioni o descrizioni di realtà religiose, date da diverse prospettive, con le quali, per altro, deve stabilire un rapporto.
Se la teologia vuole essere presente alla cultura contemporanea, deve operare una svolta e questa non può essere che antropologica.»
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Così, dopo aver fatto strame della filosofia greca (ridotta a un pensiero rigido, che sa pensare solo le essenze) e dopo aver mescolato, con incredibile disinvoltura, un gigante come Kierkegaard con una nana come Simone de Beauvoir, mettendoli sullo stesso piano, si dichiara candidamente che è tempo, per la teologia, di rivalutare la storia, intesa nel senso qualitativo del progresso temporale: più storia, dunque più valore, dunque più significato: indipendentemente dalla Rivelazione cristiana, la quale viene, semmai, ad aggiungersi (ma, a questo punto, ci si chiede con quale utilità) alla marcia trionfale della Storia stessa, incamminata verso le meraviglie del Progresso illimitato, che viene ad essere, di fatto, il vero e nuovo Dio della Storia medesima.
Straordinario Danielou, straordinario Margaritti: hanno scoperto che bisogna “deoggettivizare” il pensiero di Dio; e con che cosa effettueranno questa rivoluzione copernicana? Evidentemente, o pensando Dio dall’interno della storia umana (ed ecco la rivalutazione dello storicismo marxista), o calandolo nella “situazione” del punto di vista umano, dell’esistenza pura e semplice (ed ecco la rivalutazione dell’esistenzialismo): con quanto vantaggio per la logica, visto che si tratta di due punti di vista opposti e inconciliabili (radicalmente ottimista e scientista il primo, radicalmente pessimista e soggettivista il secondo), non si sa: peccato, ad ogni modo che corrispondano a due grossi spropositi, dal punto di vista del pensiero cattolico: perché la storia, per il cattolico, è, precisamente, il riflesso del divino, e non ha valore in se stessa, ma solo in quanto riflette il bisogno di Dio e la nostalgia di Dio da parte dell’uomo; e perché l’esistenza, per il cattolico, non è affatto il “dato” di partenza, da cui svolgere la propria riflessione sul senso della condizione umana, ma, al contrario, l’occasione per il manifestarsi di quel senso, che discende, appunto, da Dio.
Insomma, quella marxista e quella esistenzialista sono due filosofie radicalmente inconciliabili con il punto di vista cristiano; e, anche se, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, andavano per la maggiore, e pareva che una persona di cultura e d’intelligenza non potesse proprio farne a meno, anche perché erano destinate a conquistare il mondo, la storia stessa (ironia delle cose!) si è incaricata di mostrare quanta inconsistenza e quanta illusione vi fosse in chi riponeva in esse tante aspettative e così grandi speranze: sono bastati pochi decenni perché cadessero miseramente, una dopo l’altra, come gusci vuoti di un errore colossale e di un tragico disinganno.
Quanto alla critica spietata alla presunta rigidità e astrattezza del pensiero greco, oltre alla incredibile leggerezza di questa condanna categorica di una delle manifestazioni più alte della filosofia d’ogni tempo, a nessuno sfugge quale fosse il vero bersaglio dei fautori della sedicente “svolta” antropologica della teologia: il neotomismo, che riassumeva in sé tanto la tradizione aristotelica, quanto quella platonica. Ed è così che giganti del pensiero teologico, come Réginald Garrigou-Lagrange, come Étienne Gilson, come Romano Amerio e come il nostro Cornelio Fabro, (scandalosamente dimenticato) sono stati cancellati, asfaltati, archiviati, mentre vi è assistito al trionfo dei nani, come Karl Rahner (che è stato, oltretutto, un grande mistificatore: vale a dire un deliberato manipolatore del pensiero tomista, allo scopo di ridurlo alle dimensioni da lui volute), come Jean Danielou, come Yves Congar, e così via. La rivincita dei nani sui giganti, del pensiero piccolo sul pensiero grande: della “storia”, della “esistenza”, della “situazione”, sull’infinito, sull’eterno, sull’assoluto: tale è stata la tanto decantata “svolta antropologica”.
Il peccato originale rimane, come un fastidioso sassolino nella scarpa, una volta che si sia operata questa rivalutazione della storia in senso immanentista e progressista, vorremmo dire in senso larvatamente pelagiano: e, per adesso, nemmeno codesti nani hanno avuto la sfrontatezza di toglierlo, così, come ci si sbarazza delle cose inutili e fastidiose. Ma non c’è dubbio che i loro emuli e successori staranno sull’avviso, per spiare l’occasione adatta. Dopo di che, l’opera della sovversione e della distruzione del pensiero cristiano sarà completa, e, quel che più conta, sarà avvenuta silenziosamente, dall’interno, per opera degli stessi “teologi” cristiani e cattolici: senza clamore, senza bisogno di scomodare forze esterne. Laicamente e pulitamente, il cristianesimo sarà “normalizzato”, cioè ridotto alla misura del mondo moderno: e, così, annullato.
Hanno solo dimenticato un piccolo, piccolissimo particolare, codesti signori della distruzione travestiti da cristiani progressisti: che lo Spirito soffia dove vuole; e che, d’ordinario, non parla ai sapienti e agl’intelligenti, ma agli umili di cuore. Perciò, non starà a loro dire l’ultima parola...
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